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domenica 12 giugno 2011

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Fa male. Fottutissimamente male. Lo dirò anche in inglese, perchè suona meglio. It fucking hurts.
Più di mezzo anno buttato nel cesso. Un bacio. Tanti baci. Delle carezze, un po' ovunque. Nulla di più. Perchè? Non lo so. Paura forse. Sta di fatto che se ora, in questo preciso istante fossi qui, credimi, andremmo ben oltre. Non è patetico? Sto qui, nella mia cameretta a farmi film mentali. Io che non ho mai fatto niente del genere, non mi sono mai illusa di niente, non ho mai dipeso da niente e nessuno, io che vantavo la mia indipendenza con un orgoglio smisurato. E guarda un po' qua? E' bastato un coglione con una bella voce e il sorriso da eterno bambino a non farmi capire più una mazza. Mi sento così stupida che nemmeno lo sai. E non solo sto male, ma scrivo anche pubblicamente che sto male. Non so cosa mi prenda. Non sono io. Non sono io questo straccio che non esce da 2 giorni e passa le giornate in assoluta apatia aspettando in un messaggio. Che poi, come ci simo finiti sul quel letto? Io ti disprezzavo. E tu non avevi certo bisogno di me. Che poi,  prima di quel giorno non avrei mai pensato che potesse succedere una cosa del genere. Non pensavo che potessi mancarmi. Mancarmi! Dopo, quanti sono...  5 giorni che non ti vedo. Non sai che battaglia. Ma tanto cosa lo scrivo a fare? Non te ne importa nulla. Avrei dovuto capirlo che sarebbe finita così. E la cosa buffa è che non mi importava che fosse solo un gioco, non mi importava di nulla quella sera e tutto il giorno successivo. Ma cazzo, in vaporetto. L'ultimo giorno di scuola, finite le lezioni, hai preso il mio stesso battello e mi sono sentita morire. Non ho idea del perchè, davvero. Ma quando ho alzato lo sguardo e ho visto che mi fissavi mi sono sentita un'idiota. Un'idiota perchè non ho saputo sostenere il tuo sguardo. Un'idiota perchè per la prima volta provavo sentimenti così contrastanti. Un'idiota ripensando a quella sera e al fatto che non avevo saputo dire quello che volevo sapessi. Ma soprattutto un'idiota perchè non sono innamorata di te, cazzo, non lo sono. Ma per qualche ragione a me sconosciuta ti voglio. Mi sento debole, futile e questo mi devasta. Sono sempre stata molto severa con me stessa, celando le mie emozioni sotto una maschera di indifferenza, lasciandole trasparire poco e a piccole dosi. Stupido? Si, incredibilmente. Ma sono troppo orgogliosa per mostrarmi quando sto male, per dimostrare di aver fallito. Così faccio finta che nulla mi sfiori, che mi veda bene tutto, che non mi interessa veramenete di nulla. Sono poche le cose attraverso le quali mi sfogo. Una è la musica. L'altra lo scrivere. Datemi in mano uno strumento, un microfono o una penna e divento la persona più sentimentale del mondo. Ma una volta finito quello che dovevo fare mi rimetto la mia fredda maschera sul viso e ricomincio la commedia. E poi non so piangere. Ogni tanto quando tutto va male vorrei arrivare a casa, stendermi sul letto e piangere tutte le mie lacrime, farmi uno di quei pianti liberatori che durano delle mezze ore. Invece se mi va bene riesco a sfogarmi un paio di minuti con lacrime silenziose. Nessun singhiozzo, viso indifferente, unica prova della mia tristezza gocce d'acqua salata che corrono lungo le guance e gli occhi che passano dal nocciola al verde per qulache minuto, il tutto con l'aiuto di una canzone particolarmente triste e soffocando la tristezza nel cuscino e poi stop, bando ai sentimentalismi, giù la maschera e ricominciamo a vivere. Questa cosa va avanti da troppo tempo, e comincio a non reggere più.

domenica 27 marzo 2011

Tasselli di puzzle.

Finite le lezioni di cui ascoltai davvero poco, uscii dalla classe insieme ad Emma. Diceva che era molto stanca e non si sentiva troppo bene, era davvero pallida. Le dissi che avrei potuto accompagnarla a casa, anche se non era proprio sulla strada, ma disse che non sarebbe stato certo un po' di mal di testa a metterla in difficoltà e che in caso ci avrebbe pensato Jean. Detto questo mi salutò con un bacio sulla guancia e si avviò verso casa con il fratello. La mia ammirazione per lei non aveva limiti.
Scorsi Thomas uscire dalla scuola con i suoi amici, mi chiesi se avesse bisogno di essere ospitato anche quel giorno, ma lui con un'occhiata mi fece capire che non ce n'era bisogno. Sara non si vedeva, quindi mi rassegnai a fare la strada da sola. Cominciai a camminare di buon passo verso casa, riflettendo. Sembrava che Thomas stesse meglio. Magari aveva trovato un accordo con la sua famiglia, o se ne sarebbe andato a stare da qualche amico. Ero molto gelosa di lui, forse più di qualsiasi altra persona. Eravamo cresciuti insieme, mantenendo un bellissimo rapporto anche se non ci frequentavamo molto, e poi lui era con me in uno dei momenti più difficili della mia vita. Era un pomeriggio di fine marzo quando scoprii che mia madre qualche anno prima aveva avuto un cancro al seno ed io non ne ero stata informata. Stavo camminando con i miei quando, all'improvviso mi venne un flashback. Io da piccola che giocavo con la sabbia sulla spiaggia e mia madre che leggeve il giornale lì vicino. Calva. Prima che potessi contestualizzare meglio quel ricordo fu segiuto da un altro. Mia madre che scendeva da un taxi. C'era vento. Lei che si toglieva la parrucca e se la sistemava meglio. Poi mi chiedeva come stava, e ricordo che io, bimba di sette anni appena, le avevo risposto: " Chi non ti conosce non nota la differenza, e qui nessuno ti conosce". Eravamo in vacanza in Sardegna. Quando arrivammo a casa presi l'album fotografico di quella vacanza, e lì era immortalata la scena della spiagia, quella che ricordavo così vivamente. Chiesi spiegazioni e i miei dovettere ammettere tutto e raccontarmi la verità.  Dissero che mi sarei solo spaventata e che ero troppo piccola per capire fino in fondo, cosa vera in effeetti, ma perchè non me l'avevano mai detto, una volta diventata abbastanza grande per capire? Non sono più una bambina, avrebbero dovuto farlo. In quel momento rividi mia madre dopo la chemio, senza capelli ed esausta che mi diceva che aveva avuto una malattia al cuoio capelluto e che presto i capelli srebbero ricresciuti. L'avevo totalmente rimosso. Dissero che i genitori di Thomas, entrambi medici, avevano avuto un ruolo fondamentale durante la malattia di mamma, e che l'avevano fatta trasferire al loro ospedale, a treviso, per poterla seguire personlmente. Così, piano piano, tutto cominciò a quadrare. I continui viaggi di lavoro di mamma. La parrucca che avevo trovato poco tempo prima in un cassetto.
Scoppiai in pianto. Un pianto di paura e sollievo che durò pressapoco un paio di minuti, poi mi ricomposi e chiesi a mio papà, dopo che mamma se n'era andata, i dettagli. Disse che per fortuna se n'erano accorti subito, e che i chirurghi per sicurezza avevano asportato non solo il tumore, ma l'intera zona che avrebbe potuto essere contaminata. In poche parole le avevano amputato un seno per poi rifarlo chirurgicamente. Naturalmente non si poteva non notare la differenza, aveva detto lui, e le ciccatrici riportate da mamma erano molto evidenti. Ecco perchè da un certo punto in poi lei aveva preso l'abitudine di chiudersi a chiave in bagno quando faceva la doccia e a non permettere a nessuno di entrare, quando fino a poco prima non le importava per nulla. Altri tasselli combaciavano, ora. Avevo quasi completato il puzzle. Realizzai che non avevo mai visto mia madre senza reggiseno, dai sette anni in su. C'eravamo quasi. Papà disse che la mamma era stata molto coraggiosa e che non si era lasciata prendere dal panico.Fui scaraventata nuovamente nel passato con l'ennesimo flashback. Io, 10 anni circa, seduta in macchina con papà. Lui guidava ed intanto diceva: Tua madre ha un'intelligenza nella norma, ma è una donna molto forte. Allora non avevo capito cosa intendesse, ma ora quella frase aveva ovviamente un significato. Tombola.
La sera stessa chiesi a Thomas di vederci. Il motivo ufficiale era che volevo capire se lui sapesse qualcosa di questa storia, dato che i suoi erano strettamente coinvolti, ma oltre a questo avevo soltanto voglia di vederlo e sfogarmi con lui. Lui ascoltò tutta la storia in silenzio. Quando ebbi finito disse che non ne sapeva niente del
tumore, ma soltanto che mia mamma andava a treviso da suo papà ogni tanto, per dei controlli. Disse che avrebbe potuto indagare, ma dissi che non era necessario. Parlammo una decina di minuti, poi decisi di andare. << Se ti serve altro sono qui >> Aveva detto lui con un po' di imbarazzo. Quanto gli volli bene in quel momento non saprei nemmeno dirlo. Quel giorno la nostra amicizia fece un salto di qualità.

domenica 20 marzo 2011

What the hell!

Uscita di casa mi arrivò un messaggio: Non aspettarmi, ci vediamo fuori da scuola tra un quarto d'ora. Sara.
Chissà perchè la cosa non mi stupiva. Misi le cuffie nelle orecchie e mi avviai. Quella mattina era il turno di What the hell di Avril Lavigne. Non aveva un gran testo ma mi piaceva il ritmo, e poi era perfetta per darmi un po' di carica visto che ero più assonnata che mai. Raggiunsi la scuola di buon passo, canticchiando. Mi era sempre piaciuta, la Lavigne, trovavo avesse un'energia incredibile. Guardai l'orologio. In perfetto orario, cosa non molto frequente da parte mia. Sara avrebbe dovuto arrivare da un momento all'altro. La canzone finì, così la rimisi. Quando mi fisso con una canzone è davvero la fine, sono capace di ascoltarla per ore, e non è una cosa positiva dato che quando ascolto la musica mi estraneo completamente da quello che mi circonda, cosa che a volte può essere davvero imbarazzante. Mi voltai e vidi Sara arrivare in compagnia di un ragazzo. Guardai meglio; Sean. Cominciamo bene. Non c'era molto che potessi fare, la aspettai, cercando di non guardarli troppo, anche se non mi fu possibile. Mentre venivano verso di me, li osservai. Lei ci provava indiscutibilmente, rideva continuamente e lo teneva a braccetto, e la cosa non mi stupiva affatto, lui era un po' imbarazzato, ma ci stava. Che il fascino slavo di Sara avesse colpito ancora? Provai un brivido lungo la schiena che non mi seppi spiegare. Quando si avvicinarono notai che anche loro avevano le cuffie, una per uno da bravi bambini. Fui scossa da un altro brivido. Datti una calmata, pensai. Quando mi raggiunsero baciai Sara su una guancia e feci un imbarazzato gesto con la mano a Sean, a cui lui rispose con lo stesso imbarazzo guardandomi di sfuggita. Ancora quegli occhi da bambino spaesato. La campanella suonò e Sara stampò una bacio sulla guancia del suo nuovo amico, seguendomi poi dentro la scuola. Dopo qualche passo la guardai interrogativamente con la cosa dell'occhio. Lei fece un finto broncio, poi scoppiò a ridere mostrando i denti piccoli e bianchi. << Dai, è carino, non guardarmi così!>>
La assecondai. << Sembra che siate diventati parecchio amici >>
Lei annuì felice << Credi che potremmo diventare di più che amici?>> Mi guardò maliziosa.
Feci finta di pensarci su e poi dissi << Beh, lo conosci da quanto, 6 giorni? Direi che è un po' presto, ma se ci tieni perchè non provarci? Al massimo puoi consolarti con quello carino di classe tua col nome impronunciabile che ti sbava dietro no? >>
<< Già>> Sorrise. << Hai ragione, prossimamente ci provo. Tanto che ho da perdere? >>
<< Esatto!>> Le dissi non molto convinta << In bocca al lupo>>
<< Crepi>> rispose lei, ed entrò nella sua classe.
Io la imitai ed entrai nella mia. Non avevo fatto a tempo a salutare Thomas, realizzai. Pazienza, ci saremmo visti all'uscita. Mi sedetti al mio banco e feci un cenno ad Emma, che mi sorrise. Eravamo diventate parecchio amiche dopo la faccenda di Jean, ed ora chiaccheravamo spesso durante il tempo libero. Avevo intenzione di chiederle di venire a pranzare da me uno dei giorni seguenti, se May non aveva niente in contrario. Entrò Smith dicendo qualcosa che non capii. Realizzai che non avevo tolto le cuffie. Lo feci e quella che si prospettava una lezione molto noiosa cominciò.

venerdì 18 marzo 2011

May

Il sole quel giorno si alzò troppo presto. La mia voglia di ricominciare la settimana era pari a zero. Avevo dormito malissimo, continuando a pensare ai Larette. Come avevo potuto essere così cieca? All'inizio Jean mi pareva un tipo socievole, ma nel concludersi della serata di due giorni prima era diventato chiuso e taciturno e non ero riuscita a spiegarmi il suo repentino cambio di atteggiamento. Ora ovviamente era tutto chiaro. Con un enorme sforzo di volontà mi alzai ed ancora in pigiama andai in bagno. Lì mi lavai e mi diedi una lunga critica occhiata nello specchio a muro; Non avevo mai avuto niente da ridire sul mio viso, era considerato bello dalla gente ed io dal mio canto non me ne lamentavo. Mi spostai una ciocca di capelli ramati dietro un orecchio. Due occhi nocciola mi guardavano seri dallo specchio. Mi feci una linguaccia e uscii dal bagno. Una volta in camera mi vestii e scesi in cucina. Quella mattina Joseph era dovuto andare a lavorare presto e Mark ancora dormiva. La casa era piacevolmente silenziosa. In cucina trovai May, già pronta e sorridente. Nei pochi giorni che avevo trascorso dalla famiglia Mosely avevo cercato di inquadrare i suoi componenti facendomi un'idea del loro carattere. Su Mark non c'era molto da dire, era un bimbo anche troppo vivace, con un'innata passione per ogni cosa possedesse un motore. Joseph era un uomo apparentemente tranquillo, ma dopo alcuni giorni di convivenza cominciai a notare che era perennemente indaffarato. Era una di quelle persone che devono essere costantemente impegnate per sentirsi utili e di conseguenza essere felici pensando di star contribuendo al benessere generale. Non serviva che facesse qualcosa di essenziale, ma anche se gli affidavi un semplice ed inutile lavoretto lui lo svolgeva con la massima serietà. A parte questo era di intelligenza media, amava leggere e stare all'aria aperta. Ed ora parliamo di May. Lei era il soggetto più interessante e piacevole della famiglia. Nonostante la sua dolcezza e pazienza era lei quella con i pantaloni in famiglia. Al mattino si svegliava per prima preparando per tutta la famiglia quella che solo teoricamente avrebbe dovuto essere una colazione, poi usciva e andava al lavoro, da cui ritornava solo alle 4 del pomeriggio. Una volta a casa faceva tutte le faccende domestiche, lavava, asciugava, stirava e così via. Quando finiva era ora di cena, che preparava sempre lei a volte aiutata da Mark o negli ultimi giorni da me, finito il pasto sparecchiava, lavava i piatti e se ne andava in veranda con il marito per il suo unico momento di relax giornaliero. Relax che non durava a lungo. Ogni sera assistevo alle lotte tra Mark ed i genitori per l'orario in cui andare a letto. Tra una cosa e l'altra May non si coricava mai prima delle 23 e 30 riuscendo a riposare sì e no 6 ore per notte, ed il giorno successivo la cosa si ripeteva più o meno identica. Doveva essere davvero stressata, ma trovava sempre il tempo di chiedermi com'era andata a scuola e cosa avevo imparato quel giorno, un po' come una seconda mamma. May si accorse di me e con un sorriso mi invitò a sedermi. Mentre facevo colazione ( cominciavo ad abituarmi alla cucina inglese ) guardai fuori dalla finestra. Il bel tempo era tornato. Magari non sarebbe stata poi una brutta giornata.

mercoledì 16 marzo 2011

La storia di Jean

Quel giorno fu uno dei più assurdi della mia vita. Ero a spasso per la città, la giornata non era delle migliori ma almeno aveva smesso di piovere e a casa non c'era niente da fare, così mi avventurai per le pittoresche stradine di Dover con la musica nelle orecchie. Credo che non ci sia niente meglio della musica per alterare emozioni e percezioni. Anche la cosa più banale, come quello che normalmente sarebbe un semplice sguardo casuale con un passante, assume tutt'altro significato se hai le cuffie nelle orecchie. Secondo me se ognuno di noi la mattina quando si alza mettesse la musica a palla per darsi la carica saremmo tutti molto più motivati, così in caso ci arrivasse una denuncia per disturbo della quiete pubblica la prenderemmo molto più seneramente.
Come dicevo, camminavo persa nelle mie fantasticherie, quando qualcosa catturò la mia attenzione costringendomi a togliermi le cuffie e concentrarmi sulla scena che avevo davanti. Jean Larette correva urlando come un forsennato verso la spiaggia, lo seguiva a ruota una preoccupatissima Emma. Non ci pensai due volte e li seguii. Che cavolo stava succedendo? Sentii Jean urlare << Io quella la ammazzo, la ammazzo!>> urlava e piangeva, ma continuava a correre. Arrivato alla spiaggia si fermò e si buttò a terra, continuando a gridare battendo i pugni sui ciottoli bianchi che dalla sua foga cominciarono a tingersi di rosso. A me e ad Emma bastò un'occhiata, lo prendemmo per le spalle e lo facemmo sedere, cercando di calmarlo. Dopo poco smise di lottare e si accasciò tremando su una grande pietra. La mia mente intanto lavorava. Cosa poteva essere successo per aver provocato una simile reazione? Io quella la ammazzo... Una ragazza? La vedova Mullin, la signora che li ospitava? Certo che doveva aver combinato una cosa davvero grossa per farlo reagire così, anche se Jean era così perennemente nervoso... In inglese esiste un termine con cui si potrebbe catalogarlo; Touchy. Letteralmente credo significhi quello-che-si-innervosisce-se-viene-toccato. Già. Certo che è strano... D'un tratto capii. Incredibilmente intelligente. Sempre nervoso. Taciturno e solitario. Non sopportava il contatto fisico. Cazzo.
Presi Emma da parte. << Jean è autistico, non è vero?>> Lei mi guardò senza parlare, ma mi bastò.
Avevo un cugino autistico. Non gli si può parlare, nè tantomeno toccarlo, ma ha un cervello incredibile. Una volta giochicchiavo a tavola con degli stuzzicadenti. Lui ci aveva dato una rapida occhiata, saranno stati al massimo un paio di secondi, e poi con un'alzata di spalle se ne era uscito con un: "62". Ci ho messo un po' a capire a cosa si riferisse, ma quando ho contato gli stuzzicadenti erano effettivamente 62. Con una sola occhiata. A 8 anni.
<< Non è una forma grave>> Disse Emma dopo un po' << Hai visto no? Ieri con te ci ha parlato. Ha perfino fatto l'imitazione di Smith>> sorrise.
<< Ha ricevuto quella che lui ritiene una provocazione. Una ragazza scherzando l'ha preso sotto braccio e lui non c'ha più visto>> Sospirò.
<< Non è possibile che sia stata l'abbandono dei genitori a ridurlo così?>> Azzardai.
Lei scosse il capo << Autistico ci nasci>> Non parlammo per un po'.
Ruppe il silenzio << Ha... provato ad ammazzarsi>> La guardai. E finalmente compresi che sotto quel sorriso e quegli occhi limpidi si celava un grande dolore. E un grande coraggio. Le sue parole divennero frenetiche << Quando ha saputo dei suoi genitori è stato due anni fa, aveva tredici anni, il giorno stesso l'ho trovato in piedi sul balcone della finestra più alta, diceva che se l'avevano abbandonato sicuramente un motivo c'era, diceva... Che sarebbe stato meglio che non fosse nato, per i suoi genitori e per noi, che ora ci dovevamo occupare di lui... Parlava più a sè stesso che a me ma riuscii a farlo scendere... Un paio di mesi dopo io ero a casa malata, ci telefonò la scuola, dicendo... che lui... si era lanciato... le scale... una spalla lussata... un braccio rotto...>> Non riuscì più a trattenere i singhiozzi e scoppiò in pianto. La abbracciai stretta,  incurante del fatto che ci conoscessimo da poco. Restammo in quella posizione per non so quanto tempo, mentre Jean, le guance ancora rigate di lacrime, guardava il mare.

lunedì 14 marzo 2011

I "fratelli" Larette.

La cena fu meno sgradevole del solito. Inizialmente parlai con i fratelli Larette del più e del meno, ma andando avanti con la cena affrontammo diversi discorsi più o meno complessi. Mi trovavo bene a parlare con loro, erano svegli quanto me, e con parecchio senso dell'umorismo. Cominciammo a prendere in giro il professor Smith, Jean lo imitava perfettamente ed io ed e Emma ridevamo come delle pazze. Mi trovai subito in straordinaria sintonia con lei, eravamo molto simili, non si poteva non notarlo. Entrambe amavamo lo sport e stare all'aria aperta, prendevamo con serietà lo studio, forse lei un po' più di me, entrambe finte spavalde e vere timide. Guardandola ridere mi accorsi che dietro un'aspetto un po' mascolino c'era qualcosa di veramente femminile in lei. La trovavo parecchio carina. Mi avevano sempre detto che avevo un gusto del bello distorto, trovavo belle cose, ma soprattutto persone, che altri non avrebbero mai considerato. Il mio prototipo di bellezza femminile per esempio, era una ragazza bassa, abbastanza magra ma non troppo, con poco seno e fianchi latini, occhi grandi  e scuri e capelli altrettanto, normolinea e con le spalle discretamente larghe. Oh, e adoravo le donne orientali. Le avevo sempre trovate bellissime. Insomma, non mi sarei mai sognata di considerare bella la tipica stangona bionda e anoressica dagli occhi blu che vedi ovunque nelle riviste patinate. Emma non era il mio prototipo, ma la trovavo comunque interessante. Aveva una bella forma di mani. Se c'è una cosa che guardo in una persona, ancor prima della faccia sono le mani. Poi vengono gli ochhi e poi tutto il resto.
Analizzata Emma mi concentrai su Jean. Lui era molto, molto più complesso. Nonostante fosse molto intelligente, basava ogni singolo rapporto con le persone dell'altro sesso sul conflitto. Come un bambino, sembrava avesse paura delle donne. Lo avevo osservato, in classe, con le studentesse con cui aveva confidenza; Era raro che parlasse tranquillamente con una ragazza, ogni volta che mi giravo stava facendo i dispetti a qualcuna. Non che con i maschi fosse poi molto meglio, riflettei. Se poi riceveva qualche contatto fisico si salvi chi può, scattava come una molla. Non riuscivo a far concordare questo aspetto del suo carattere così infantile con la sua maturità cerebrale. Per quanto riguarda l'aspetto fisico, si andava ancor più sul difficile; Il corpo era parecchio magro ed ancora un po' infantile, ma aveva una bella forma di spalle e schiena che prometteva bene per il futuro, il viso era bizzarro. I lineamenti erano affilati, ma aveva due occhi pazzeschi, sebbene non amassi gli occhi chiari, enormi, tra il blu ed il verde. Finita la cena ci spostammo dalla cucina in soggiorno, mentre gli adulti chiacchieravano e sparecchiavano e Mark giocava con i videogiochi.
<< Allora, che ve ne sembra di questa vacanza? >> Chiesi loro.
<< E' carina>> Affermò Emma << E'una bella esperienza, e poi è molto utile. Prima di cominciare a fare questi viaggi all'estero rischiavo il debito nelle lingue in un modo assurdo>> Ammise.
<< Com'è che vi hanno presi tutti e due? Insomma, o siete entrambi bravissimi o avete avuto culo... >>
<< In realtà non abbiamo fatto alcun esame, non c'erano altri candidati per questo viaggio, nè in classe nostra nè nelle altre>> Disse Jean
<< Sul serio?! Noi eravamo in sessanta!>> Esclamai, poi mi venne un dubbio. << Classe vostra? Vuol dire che avete la stessa età? Siete... Gemelli?>> La sola idea mi pareva assurda, già era incredibile crederli fratelli, ma addirittura gemelli... << Sono adottato, i miei genitori non mi volevano >> Disse Jean con quello che mi parve orgoglio. Questa non me la aspettavo, e doveva vedersi dalla mia faccia infatti Emma si affrettò a precisare << Non hai detto nulla di male, rilassati. Jean è mio cugino di terzo grado, i suoi genitori ce l'hanno affidato e poi sono scappati in India. Erano due viaggiatori incontenibili ed un figlio li avrebbe solo rallentati, quindi hanno pensato bene di scaricarlo a noi>> Disse dando un'amichevole spallata al "fratello" il quale non sembrava per niente scosso, anzi, sembrava sperare in una mia reazione esagerata. Speranza vana, sono una maga nel dissimulare le emozioni. <<Beh, ti è andata bene>> Dissi con un'alzata di spalle indicando Emma con il mento e lasciammo cadere il discorso. La serata si concluse troppo presto, e i due " fratelli per caso " come li avevo ribatezzati, se ne tornarono a casa lasciandomi sola con i miei pensieri. Ammiravo Jean, decisi mentre mi infilavo il pigiama, non era da tutti reagire così bene al rifiuto dei genitori. In quanto ad Emma lo trattava esattamente come se fosse il suo fratello biologico. Saremmo diventate ottime amiche, lo sentivo.

domenica 13 marzo 2011

Dio?

( Si consiglia di ascoltare la canzone YOU FOUND ME dei THE FRAY durante la lettura )

La giornata si concluse sotto la pioggia. Il così inaspettato bel tempo se ne era andato, portando con se la mia allegria. Mi capitava spesso di cambiare umore all'improvviso, passare dalla più assoluta allegria ad un senso di vuoto perlopiù immotivato. Molti dicevano che era l'età, io invece credevo facesse semplicemente parte del mio carattere. Ero distesa sul letto ascoltando " You found me" dei The Fray, il che non era proprio il massimo per tirarmi su di morale. I found God, at the corner of 1st and Amistad where the west was all but won all alone, smoking his last cigarette, i said Where you been? He said Ask anything. Where were you when everything was falling apart? All my days spent by the telephone that never rang, all i needed was a call that never came to the corner of 1st and Amistad. Lost and insecure you found me, you fuond me, lying on the flor, surrounded, surrounded. Why'd you have to wait? Where where you, where were you? Just a little late, you found me.
Già proprio il massimo. Forse erano stati proprio loro a farmi dubitare dell'esistenza di Dio. I loro testi erano pieni di tristezza quotidiana, che mi aveva portato a pensare in grande. Dov'era Dio? Dov'è quando migliaia di innocenti muoiono per la fame, la guerra, la malattia. Dov'è mentre il mondo va a rotoli, dov'è durante le guerre civili? Ma anche restando nel quotidiano, dov'è quando una madre perde il proprio bambino durante il parto? Dov'è quando una ragazzina viene violentata e uccisa? E dov'è quando la colpa viene sempre data agli extracomunitari che a volte si beccano anni di galera per qualcosa che non hanno fatto? E dov'è durante terremoti e tsunami che distruggono intere città e uccidono tantissime persone? E quando una coppietta di 16enni viene investita ed uccisa da un ubriaco su una volvo? Non mi ero mai capacitata di come la gente riuscisse a credere. Un po' li invidiavo perchè doveva essere bello avere delle certezze, un posto migliore dopo la morte e via dicendo. " Ma allora secondo te quando muori cosa c'è?" Mi chiedono quando scoprono che non credo. Niente. Secondo me non c'è niente. " Che cosa triste! " Lo so. Mi sono scervellata fin da piccola per trovare una risposta. Ci deve essere qualcosa, mi dicevo. Non riuscivo a capacitarmi sul fatto che non sarei esistita più, un giorno. Poi finalmente, intorno ai 12 anni, l'illuminazione. Sarà come addormentarsi, mi sono detta. Quando dormi non pensi, e a volte ti pare addirittura di non sognare. Sarà come un eterno sonno senza sogni. Ci sono stata male per giorni ma poi l'ho accettato.
E comunque l'idea che dopo la morte ci sia il paradiso o l'inferno, a seconda della tua condotta, mi sembra improponibile, mentre la reincarnazione buddista mi pare dopotutto fattibile. Questo spiegherebbe i dejavu. Comunque io la mia teoria ce l'ho e mi metto l'anima in pace, se ci sarà effettivamente qualcosa dopo tanto meglio. O forse no? Forse non sarebbe tanto male stare in pace per l'eternità senza più pensieri e preoccupazioni. Ma non sarebbe giusto nei confronti della gente morta molto giovane, che non ha fatto a tempo a fare le belle esperienza della vita. Chissà.
<< A tavolaaaaaaaaaaa! >> May mi riportò nel mondo dei vivi. Poveri noi, pensai, immaginando la cena di quella sera. Mi rassettai i vestiti e scesi in cucina. Lì mi aspettava una sorpresa. Jean ed Emma, i miei compagni francesi, e la loro famiglia.
<< Ehy!>> Li salutai << Restate per cena?>>
Disserò di si. Mi piacevano, i due francesini. Non li conoscevo molto bene, non ci avevo parlato molto, ma da quello che dicevano in classe e da come si comportavano non dovevano essere male. Lei era sempre tranquilla e sorridente, mentre lui era spesso nervoso ma molto intelligente. Non si sarebbe proprio detto che fossero fratelli. Emma era alta circa come me, capelli corti alla maschio, tre orecchini per ogni orecchio, occhi limpidi e sorriso simpatico, Jean era alto quanto la sorella, magro e non molto atletico, i capelli erano lunghi e scuri. Ringraziai mentalmente i Mosely per averli invitati. Forse mi sarei fatta dei nuovi amici.

mercoledì 9 marzo 2011

Tutti al mare!

Il giorno seguente era sabato, quindi niente lezioni. Io, Thomas e Sara, che si era finalmente degnata di onorarci  della sua presenza, decidemmo di andare in spiaggia quella matina, sotto la supervisione di Joseph che ne aveva approfittato per portare Mark a fare un giretto. Non mi capacitavo di come fosse possibile che bensì non fossimo nemmeno a maggio ci fosse un sole tale. Chiariamoci, non che facesse proprio caldo, ma quando ci si immagina l'inghilterra si pensa a pioggia, nuovoloni neri e nebbia. Forse eravamo stati semplicemente fortunati e avevamo beccato un periodo felice, sta di fatto che sebbene non fosse proprio il clima adatto per un bagno, decidemmo di provarci. Direttamente dal centro del paese ci avviammo verso la spiaggia. Dover è famosa per le sue bianche e stupende scogliere, sotto le quali si trova qualche piccola spiaggetta. Quella a cui decidemmo di recarci era molto particolare in quanto non era sabbiosa bensì composta da piccoli ciottoli bianchi. Non era il massimo della comodità stendersi su di essi, ma non ci facemmo troppi problemi. Arrivati a destinazione stendemmo gli asciugamani e i miei amici si spogliarono restanodo in costume, mentre Joseph e Mark facevano una passeggiata. Io esitai. Avevo sempre avuto qualche problemino con il mio corpo, niente di serio, non avevo un brutto fisico, ero proporzionata, piuttosto snella e muscolosa. Quello che mi metteva a disagio era il seno. Nell'ultimo periodo ero cresciuta molto e avevo finalmente ottenuto le tanto attese curve femminili. Ma erano proprio quelle sinuosità che avevo tanto sospirato ad imbarazzarmi ora. Capirete che su un metro e sessanta di ragazza una terza di reggiseno spicca abbastanza, sebbene non sia una cosa anormale, e mi era capitato più di una volta di sorprendere qualche ragazzo a fissarmi in modo così insistente da farmi sospettare che il mio seno fosse cresciuto di 2 taglie in una notte. Le mie amiche poi non rendevano la cosa più sopportabile, elogiando il mio davanzale ogni volta che se ne presentava l'occasione. Avevo provato a barare un po' sulle mie misure, spacciandomi per una seconda, ma non ci era cascato nessuno. L'unica a dirmi che non ero un fenomeno da baraccone era mia madre, " Non sai quante donne si mettono sotto i ferri per avere un seno come il tuo" diceva. E poi ovunque era scritto che la terza era la misura ideale. Mi voltai verso i miei amici, che si stavano stendendo al " sole " . Sara era davvero magrissima, le membra lunghe ed il seno quasi inesistente l'avrebbero fatta piuttosto mascolina, se non fosse stato per quel visino dolce da bambolina che si ritrovava. Thomas invece era ben piazzato, da bambino cicciottello si era fatto un ragazzo atletico dalle spalle larghe ed il ventre piatto e muscoloso grazie al nuoto agonistico che praticava ormai da anni, ma non aveva perso l'eleganza e la riservatezza dei movimenti che lo avevano caratterizzato fin da bambino. Fallo, mi dissi, e con un semplice movimento mi sfilai dalla testa la maglietta. Dopo pochi secondi ero in costume, sdraiata di fianco ai miei amici.
<< Tommy, mi metteresti un po' di crema solare sulla schiena?>> Disse Sara. Mi parve di scorgere una nota di malizia nella sua voce, ma potevo anche essermela immaginata.
<< Ma non c'è un gran sole... >> Obbiettò lui un po' perplesso.
<< Mi basta poco per scottarmi, ho la pelle delicata>> In effetti era piuttosto chiara di carnagione, anche se non pallida.
Alzando le spalle Thomas prese dalla mia sacca la crema versandosene un po' sulla mano. Prima che potesse cominciare a spalmarla Sara si slaccciò il costume sulla schiena tenendosi coperta il poco seno che aveva con il braccio. Alzai gli occhi al cielo. Lui mi lanciò un' occhiatina e le mise delicatamente la crema sulla schiena. Quando ebbe finito lei gli fece un gran sorriso e si riallacciò il costume.
<< Che ne dite di un bagno? >> proposi. << Congeleremo di sicuro, ma perchè non provarci? >> Sara accettò e Thomas disse che ci avrebbe ragginuto poco dopo. L'acqua era davvero fredda ma cercando di non pensarci io e Sara riuscimmo ad immergerci fino all'altezza dell'ombelico lanciando di tanto in tanto piccole grida per il freddo.
<< Cos'era quell'avance a Tommy di poco fa? >> Le chiesi guardandola sorridendo.
<< Di cosa parli?>>
<< Ma dai!>> ridacchiai << Quel " mi metteresti un po' di crema solare sulla schiena". Davvero non ci stavi provando?>>
<< Nah. Dici che lui ha pensato ci provassi?>> chiese non eccessivamente preoccpata.
Alzai le spalle. << Posso chiedergleilo>> Fu lei ad ad alzare le spalle << Non mi interessa Tommy, non è molto bello e poi lo conosco da troppo tempo. Ci sono dei ragazzi di qui che ho puntato>>
<< Chissà perchè la cosa non mi stupisce>> dissi, lei mi sorrise furba. << Chi sono?>>
<< Beh ... In classe mia gli unici decenti sono Jack e Francis, hai presente?>> Annuii. << Nel corso A c'è Josh... e da te... Ryan e Jean>>. Sorrisi, era impossibile non notare Ryan. << Jean, il francese, fratello di Emma? Non è un granchè>> Obbiettai.
<< Invece non è affatto male! Ha un nonsocchè... e poi c'è Sean ovviamente >>
Possibile che quel benedetto ragazzo venisse sempre fuori, in ogni discorso? << Dovresti vederlo Ire, ha un fisico... >> Continuava lei con sguardo sognante. L'ho già visto abbastanza pensai, ripensando all'intrusione di quelche giorno prima. << Ma non capisco se gli piaccio. E' arcaico. Tu come lo trovi? >> Mi stinsi nelle spalle << E' carino, ma non mi sembra popò di splendore come lo definisci tu >>
<< E' quel tipo di persona  che ogni volta che la vedi trovi un po' più attraente>> Cercò di spiegarmi lei, poi sbuffò << E' che tu sei così difficile! >> Le nostre chiacchiere furono interrotte dall'arrivo di Thomas, che cominciando a schizzarci d'acqua gelata diede il via ad una vera e propria battaglia.

lunedì 7 marzo 2011

??

Avere Thomas a pranzo fu fantastico. Cucinai io come promesso, e fu il mio primo vero pasto dopo tre giorni, May ne fu entusiasta e mi disse che se la cosa mi divertiva avrei potuto cucinare ogni volta che volevo, in più si innamorò di Thomas, che trovava un " ragazzo davvero simpatico " e gli permise di fermarsi da loro quanto voleva. Cominciavo davvero ad affezionarmi ai Mosely. Finito il pranzo io e Tommy salimmo in camera mia e lì lui si sfogò di nuovo parlandomi della sua orrenda "famiglia adottiva" , confidandomi quanto mi invidiasse per aver trovato delle persone tanto gentili pronte ad ospitarmi ed a trattarmi come una di famiglia. Io dal mio canto, sentendomi un po' miserabile notando l'abisso tra i problemi del mio amico ed i miei, passai un buon quarto d'ora ad inveire contro Sara, al fatto che mi aveva scaricata in pieno dopo soltanto un paio di giorni e chissà se mi avrebbe parlato ancora di lì a 3 settimane.
Tommy mi ascoltò, come il solito, anche se era chiaro che la cosa non gli interessava particolarmente e mi consigliò di parlarne con lei e di chiarire le cose.
<< Non c'è niente da chiarire>> Gli dissi io << Non è poi grave, mi fa piacere se si fa degli amici qui, spero solo che se mai avrò bisogno di lei non mi molli per stare con altri>> Questa frase fu seguita da uno sguardo pieno di sottointesi. Entrambi conoscevamo Sara da parecchi anni e ormai sapevamo com'era fatta. Una ragazza simpatica, semplice e ridacciana, cocciuta come un mulo, nè particolarmente intelligente nè tonta, pronta ad abbandonare qualunque amica per il figo di turno. Non era una persona molto affidabile ma la conoscevamo da talmente tanto tempo e ne avevamo fatte talmente tante insieme che ormai passavamo sopra ai suoi difetti. Fin quando non esagerava, ovvio, ed era successo più di una volta.
Per fortuna ci sei tu, pensai sbirciando Thomas, ma non glielo dissi. Il nostro rapporto non era basato sulle dimostrazione d'affetto. Non ne avevamo bisogno.
<< Che te ne pare della famiglia che è toccata a Sara? >> Dissi con indifferenza. Volevo capire se avesse avuto qualche contatto con i Grint.
<< Non saprei. Non ci ho mai parlato seriamente ma non sembrano male. So che Sara li definisce " normali " anche se trova il figlio un " figo assurdo">> Disse imitando la voce acuta dell'amica.
<< Chi, Sean? Non lo definirei proprio un figo... >>  Abbassai lo sguardo. Quando mi decisi a rialzarlo Thomas mi stava fissando.
<< C'è qualcosa che non mi hai detto, Irene?>> Mi chiese avvicinandosi a me con un sorrisetto.
Ma come cavolo...?! Era davvero così facile capire quello che mi passava per la testa? Accidenti a lui, avrei dovuto imparare a controllarmi meglio.
Dopo averlo fulminato con lo sguardo con la testa bassa gli raccontai di quello che era successo a casa Grint la mattina del primo giorno di scuola e l'accaduto al ritrovo sulla spiaggia della sera stessa.
Quando ebbi finito lui rimase per un po' a osservarmi.
<< Quindi... gli sei piombata in camera mentre si stava cambiando e poi te ne sei corsa fuori come una pazza isterica?>>
<< Se la vuoi mettere così>> Gli concessi.
<< Mi dispiace infrangere le tue speranze, ma non è possibile che non ti abbia riconosciuto quella sera>>
<< Spiegati>>
<< Insomma, se qualcuno che non ho mai visto prima, soprattutto una ragazza, mi si fiondasse in camera mentre sono mezzo nudo me ne ricorderei. E aspetta, fatti guardare... >> Indugiò per un momento << Si, sei proprio una ragazza>>
Lo colpii con un cuscino.
<< Forse era ancora più imbarazzato di te>>
<< E perchè avrebbe dovuto? Sono io l'idiota che ha fatto la figura di una da ricoverare con urgenza al manicomio. Se mi avese riso in faccia l'avrei capito>> Ci pensai un po' << Poi probabilmente l'avrei pestato a sangue>>.
Lui sorrise e fece spallucce.

sabato 5 marzo 2011

Un bel sedere ed una brutta situazione

Il giorno seguente saltai direttamente la colazione, avevo deciso che era inutile provarci, e una volta lavata e vestita uscii di casa. La sera prima ero riuscita con una scusa a convincere Sara ad aspettarmi al lampione di fianco a casa Grint quella mattina, così non avrei corso il rischio di incontrare di nuovo quella famiglia di matti. La strada fino alla scuola era puttosto breve e chiacchierando la si raggiungeva in un baleno. La mattinata passò piuttosto velocemente. Il mio insegnante di inglese era un serioso professore universitario, che per quanto noioso riuscivo a seguire discretamente. Di cognome faceva Smith e sarebbe stato un bell'uomo se non fosse stato per l'aria perennemente afflitta ed il colorito pallido. All'intervallo scambiai due parole con Ryan, un ragazzo anglo-colombiano venuto a Dover per perfezionare la lingua. C'è poco da dire, era un vero schianto. I capelli mossi e scuri incorniciavano il bel viso color caffèlatte sul quale spiccavano due occhi scuri e luminosi. Parlammo del corso di lingua, dei nostri paesi d'origine e dell' impatto positivo dello stare in un ambiente internazionale. Quando suonò la campanella che segnalava la fine del break mi salutò con un sorriso e se ne tornò al suo banco, in fondo alla classe. Lo guardai con la coda dell'occhio mentre se ne andava. Figo forte il tipo. E apparentemente con un cervello superiore ad una nocciolina, cosa non comune negli esemplari maschili di homo sapiens di quest'età. E ragazzi, che fondoschiena.
Mentre ero intenta a paragonare il fondoschiena di Ryan ad una piccola anguria fui interrotta dal professor Smith che cominciava un'altra barbosa lezione sull'uso corretto del condizionale di cui, ad onor del vero, non ascoltai una parola. Al termine delle lezioni raccattai la mia roba e uscii in corridoio per cercare Sara, che frequentava il corso parallelo al mio. La trovai intenta a chiacchierare con una ragazza castana piuttosto bassa e piuttosto insulsa, che scoprii in seguito chiamarsi Selene. Quando mi vide ( Sara, non Selene ) mi disse di andare pure avanti, perchè si sarebbe fermata a pranzare dall'amica. Me ne andai con le mani in tasca, un po' scocciata, ma trovai Thomas fuori ad aspettarmi. Io e lui ci conosciamo da una vita, le nostre madri sono cresciute assieme ed hanno partorito ad un mese l'una dall'altra. Ci siamo sempre divertiti insieme, perchè siamo molto simili. Siamo entrambi riservati e sportivi, ci piace scherzare.
<< Grazie di avermi aspettato, Sara mi ha bidonato>> Dissi raggiungendolo.
<< Cosa ti fa pensare che aspettassi te? >> Chiese lui con un sorriso.
<< Non lo so... intuito femminile>> Dissi stando al gioco << Mi sbaglio?>>
<< Assolutamente>> Disse lui annuendo << Aspetto qualcuno di molto più importante>>
<< Sarebbe?>>
<< Il cane della signora Parr>>
<< Idiota, la signora Parr ha un gatto>>
Continuammo a battibeccare sull'esistenza o meno del cane della segretaria della scuola, donna evidentemente molto sola che approfittando del fatto che dovevo fare delle fotocopie nel suo ufficio mi aveva raccontato la storia sua vita, mentre ci avviavamo verso casa.
<< Ma tu non abiti di là?>> Gli chiesi fermandomi in mezzo alla strada
<< Già, ma non ho la minima voglia di tornare in quella casa>> Disse lui guardandosi le scarpe.
Mi raccontò che i Collins, dai quali abitava erano degli snob pazzeschi che avevano acconsentito ad accoglierlo in casa loro soltanto per i soldi che la scuola pagava alle famiglie che ci avevano ospitato alla fine del viaggio. Non che fossero poveri, diceva Thomas, ma erano avidi e materialisti. Per quanto riguardava le ragazze di casa Collins, le due dall'aria malaticcia che avevo visto all'arrivo, lo trattavano con superiorità seguendo l'esempio dei genitori e lui si sentiva ogni giorno più frustrato. Ripensai a May e Joseph con le loro goffe attenzioni e il loro essere sempre gentili con me e al piccolo Mark che infondo non mi aveva mai fatto niente di male. E io che mi lamentavo della cucina.
<< Vuoi mangiare con me Tommy?  penso che i Mosely non avranno niente in contrario. May è una cuoca terribile, ma sei fortunato, oggi cucino io>>
<< Siamo a posto allora>> Disse lui scettico ma chiaramente sollevato dal non dover tornare dalla sua terribile famiglia.
Gli feci una linguaccia e prendendolo sotto braccio lo portai verso casa.